Chi era Jean François Champollion?

La stele di Rosetta

Chiunque abbia un minimo di conoscenza della storia sa certamente chi fosse il personaggio che nominiamo nel titolo di questo articolo. Perciò, spiegare che questo nome è universalmente noto potrebbe sembrare, oltre che banale, anche inutile. L’uomo che lo portava, infatti, ha consentito a generazioni di studiosi di tradurre i geroglifici degli antichi Egizi che, in seguito all’abbandono di questa scrittura e per oltre un millennio, erano divenuti dei semplici disegni artistici. Ma come è stato possibile arrivare a questo incredibile risultato? La storia che stiamo per raccontarvi non ha niente di ordinario, sebbene molti di voi sosterranno di averla già sentita. Eppure noi riteniamo che la questione meriti un ulteriore approfondimento e presto capirete perché.

Nel 1799 un capitano appartenente all’esercito napoleonico rinvenne a Rashid una pietra incisa, i cui contenuti accesero immediatamente la curiosità degli accademici, tanto che questo cippo venne per lungo tempo conteso tra la Francia e il Regno Unito. La Stele di Rosetta, questo il nome latinizzato del reperto, fu infine acquisita dal British Museum nel 1802 e lì, ancora oggi, può essere ammirata da tutti. Perché vi fu tanto scalpore intorno all’ennesima pietra scolpita rinvenuta in Egitto? Perché questa stele, risalente al 196 a.C., contiene tre tipologie di alfabeto, ossia geroglifico, demotico e greco. Il geroglifico egizio era un modo di scrivere destinato ad essere scolpito sui grandi monumenti, al fine di garantire una durata possibilmente infinita dei contenuti espressi. Per i documenti meno importanti si adoperava, invece, l’alfabeto ieratico che, contrariamente ai geroglifici che potevano essere letti in entrambe le direzioni, imponeva la direzione da destra a sinistra. Inizialmente espressa indifferentemente in righe o colonne, nel periodo della XII dinastia (1990 a.C. – 1780 a.C.) si standardizzò nella versione scritta dall’alto verso il basso. Dall’alfabeto ieratico, in periodi più recenti, si enucleò l’alfabeto demotico che, a differenza degli alfabeti sopra descritti, veniva usata per i documenti destinati al popolo.

Questa utile digressione ci aiuta, quindi, a comprendere che questi alfabeti erano molto diversi tra loro. La Stele di Rosetta, però, come specificato sopra, conteneva l’alfabeto di un terzo idioma: il greco. Era la prima volta che si rinveniva un antico documento egizio in tre lingue, di cui una ancora conosciuta. La tradizione vuole che il greco fu la chiave che consentì agli studiosi di decifrare i geroglifici. Più banalmente: una semplice comparazione tra greco, demotico e geroglifico avrebbe portato alla decodifica di segni che fino ad allora erano stati ritenuti semplicemente simbolici e non fonetici. La storia, però, non andò esattamente così.

Antoine-Isaac Silvestre de Sacy, notaio e orientalista, si occupò per primo della risoluzione dell’enigma. Ancora oggi, sebbene non avesse seguito regolari studi accademici, viene ritenuto uno dei più grandi filologi del XIX secolo, avendo appreso da autodidatta il siriaco, il samaritano, il caldeo, l'arabo, il persiano, il turco-ottomano, l'inglese, il tedesco, l'italiano e lo spagnolo. Sfortunatamente, nonostante l’impegno profuso, il de Sacy non riuscì a pervenire a risultati rilevanti rispetto alla traduzione della Stele di Rosetta. Nel 1802 venne avvicinato dal diplomatico svedese Johann David Åkerblad, che divenne presto suo allievo. Quest’ultimo riuscì, nel corso dell’anno successivo e del tutto in solitudine, essendosi nel frattempo trasferito a Roma, a decifrare i nomi propri dei re e delle regine, alcuni pronomi e poche altre parole della parte demotica dello scritto. Nel 1814 il fisico e scienziato inglese Thomas Young tradusse completamente il demotico presente nella stele e una piccola parte della scrittura geroglifica, cioè i cartigli che riportavano i nomi dei regnanti. Lo scienziato inglese intuì, infatti, che il demotico fosse composto sia da segni simbolici che alfabetici ma non fu capace di compiere il passo successivo ed applicare la medesima idea ai geroglifici. Tra il 1814 e il 1822 entrò in gioco il francese Champollion che, fortunatamente, ebbe accesso a nuovi documenti e, grazie alla sua arguzia, riuscì ad identificare la fonetica dei caratteri riportanti il nome di Cleopatra in geroglifico. Utilizzando lo stesso metodo applicato con successo a questa traduzione, provò a rintracciare altri nomi propri di regnanti conosciuti e, pian piano, riuscì ad identificare lettere e suoni fino ad arrivare ad una completa comprensione di quelli che fino ad allora erano sembrati essere solo dei magnifici disegni scolpiti su pietra.

Perché lo studioso francese riuscì dove chi lo aveva preceduto aveva fallito? Alcuni di voi potrebbero obiettare che Champollion avesse titoli sufficienti a garantirgli quei risultati che i suoi predecessori potevano solo avvicinare, essendo specializzati accademicamente in materie diverse da quelle oggetto di studio, cioè le lingue comparate. Eppure, ribadiamo, le cose non andarono proprio così.

Ultimo di sette fratelli, Champollion imparò a leggere praticamente da solo all’età di cinque anni, grazie alla sua eccezionale memoria fotografica. Poco più che diciasettenne dissertò sulla derivazione del copto dall’antica lingua egizia. A diciannove anni era già professore e a venti, nel 1810, già sosteneva che il geroglifico e il demotico fossero alfabeti fonetici piuttosto che simbolici. E proprio grazie alla profonda conoscenza della lingua copta riuscì a legare insieme antichi simboli, lettere e lingue, iscrivendo per sempre il suo nome nel Pantheon dei grandi della Storia.

Ora sapete chi era Champollion e, soprattutto, chi erano gli studiosi che gli hanno servito su un piatto d’argento indizi e tracce che lui ha ben combinato con le sue personali conoscenze per pervenire ad un risultato fuori dal comune.

Non fu, dunque, solo la lingua greca la chiave di volta del mondo sconosciuto dei geroglifici egizi: fu una dose combinata di conoscenze, talento e intuizione. Heinrich Schliemann, un semplice commerciante tedesco, grazie allo studio costante, alla sua predisposizione e ad un grande intuito, determinò quasi cinquant’anni dopo, l’esatta posizione dell’antica città di Troia, precedendo accademici e studiosi certamente più titolati e competenti in materia.

Chi ha avuto la pazienza di leggere fin qui avrà ben compreso perché la storia della miracolosa traduzione della Stele di Rosetta non sia affatto banale. Così come non lo fu quella della scoperta della città cantata da Omero. Oggi personalità dello spessore di Champollion e Schliemann verrebbero escluse dalle pubblicazioni e studiosi come de Sacy, Åkerblad e Young sarebbero ritenuti incompetenti, verrebbero dileggiati dagli specialisti e invitati ad occuparsi delle proprie materie, sempre che non dovessero subire l’oltraggio di essere calunniati e ridicolizzati per essere ridotti al silenzio. E con tali presupposti non sarebbe affatto irreale concludere che, se l’Accademia del XIX secolo fosse stata un po’ più ottusa e meno giusta, ai giorni nostri staremo ancora ad interrogarci sulla natura dei geroglifici, così come sull’eventuale esistenza della città di Troia.

Siete ancora convinti che la storia della decifrazione della Stele di Rosetta sia quella che avete appreso a scuola?

(Yoda - 7 agosto 2018)